La fotografia è arte?
Faccio mie le parole del fotografo Edward Weston: chi lo sa e chi se ne importa?
La fotografia mi piace. Di più: mi
entusiasma, mi emoziona. Non passa giorno nel quale non dedichi
anche solo una piccola parte del mio tempo a qualcosa che attiene alla
fotografia. È una parte di me e trascurarla sarebbe una sorta di violenza a me
stesso. Mi
dedico con grande passione alla fotografia amatoriale dal 1970 e dunque ho
conosciuto un mondo della fotografia fatto di pellicola in bianco e nero,
camera oscura, apparecchiature meccaniche. L’avvento del digitale è stato una
sorta di terremoto per i fotografi di vecchia scuola ai quali il nuovo sistema
imponeva l’azzeramento delle tante conoscenze acquisite. Ricordo di aver
promesso a me stesso che non sarei mai approdato al sistema digitale. Poi ho
dovuto adeguarmi perché non ci si può opporre al progresso.
Il
digitale ha portato con sé innegabili vantaggi (si pensi solo alla possibilità
di visualizzare subito il risultato di uno scatto) ma anche una miriade di
complicazioni operative e funzionali che difficilmente consentono
un’applicazione fotografica riflessiva e ponderata.
Inoltre il sistema digitale è
strettamente collegato ad un’altra e ben più sostanziosa novità: la cosiddetta
camera chiara, evoluzione elettronica della manuale e limitata camera oscura.
Il ricorso al computer e l’impiego di potentissimi software consentono oggi di
ottimizzare e correggere le fotografie, ma anche di stravolgerle e
falsificarle.
È nota, sull’argomento, l’esistenza di
due scuole di pensiero. Quella che considera il ritocco fotografico un male
assoluto e quella che invece lo considera una formidabile opportunità per
eseguire correzioni fino a ieri impossibili.
Il guaio è che le correzioni eseguite
con l’ausilio del computer a volte varcano ed oltrepassano ampiamente i confini
del lecito, fino a raggiungere risultati visivi, e non solo, completamente
difformi da ciò che il fotografo aveva traguardato nel mirino.
Capita troppo spesso di vedere
fotografie letteralmente maciullate con i software di fotoritocco, immagini
sicuramente di aspetto gradevolissimo e di forte impatto visivo, ma
sostanzialmente false: fotografie al silicone le chiamo io.
Intendiamoci: facendo un paragone col
settore edilizio, penso che in fase di elaborazione di una foto al computer sia
ammissibile il solo restauro, non la ristrutturazione completa. In medio stat virtus.
Un ulteriore “male” della fotografia
digitale è che oggi il fotografo passa solo un decimo del suo tempo dietro il
mirino ed i restanti nove decimi davanti ad un monitor. A scapito del
contenuto, molto spesso.
Oggi le mie vecchie fotocamere a pellicola si godono il meritato riposo dopo avermi accompagnato, sempre fedeli, nel percorso fotografico dell’era analogica. Ma il fascino, anche solo tattile, di una vecchia Leica a telemetro è un quid che non può essere spiegato a parole. Ed è forse per questo che oggi, approdato inesorabilmente al digitale, mi piace di tanto in tanto rinnovare l'emozione di prendere una Leica in mano. E non a caso oggi, contrariamente al passato, non amo parlare delle mie attuali attrezzature digitali, belle senz'anima.
Nei miei scatti cerco di evitare la luce solare diretta e preferisco ricercare condizioni di illuminazione insolite che diano fascino e atmosfera agli ambienti. Le mie inquadrature sono semplici ed essenziali, concentrate su ciò che raffiguro come significativo. Considero la composizione strettamente vincolata alla propria regola aurea, un esercizio ad escludere. Del resto la fotografia è proprio questo: un esercizio a togliere, per lasciare posto e spazio a ciò che arriva direttamente al cuore e alla mente. Del fotografo, prima, e dell’osservatore, poi.
Massimo Vespignani
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